Musica

Leandro Diana – La Mia Musica a Modo Mio

All’uscita, nel 2013, del suo primo album rimasi colpito dell’elevato livello sia come songwriting che come produzione, in quanto sapendolo comunque impegnato in un “lavoro vero” di avvocato mi sarei aspettato un risultato amatoriale, e invece si trattava di un lavoro discografico professionale oltre che di una raccolta di brani molto belli e ben suonati. Il Primo Dicembre e’ uscito il suo secondo LP “Dirty Hands and Gravel Road” a pochi mesi dall’uscita di un EP “Accept and Continue”, realizzato e pubblicato durante il lockdown. La storia di Leandro e’ molto interessante perche’ concilia due attiavita’ in due professioni molto diverse riuscendo a raggiungere ottimi risultati in entrambe. Il segreto di Leandro e’ il voler fare la sua musica a modo suo, senza compromessi, seguendo direttamente e facendo in prima persona quasi tutto, autoproducendosi in modo indipendente. Senza compromessi, ci tiene a precisare, sopratutto con se stesso, in quanto in primo luogo questo voler fare tutto “a modo suo” nasce dal voler continuamente mettersi alla prova con i propri limiti e i limiti degli strumenti.

L’album e’ acquistabile in formato CD a questo link

https://wall.cdclick-europe.com/projects/001939

e ascoltabile in streaming su Spotify:

Ciao Leandro, cominciamo dalla tua carriera musicale, ma non solo, visto che di giorno vesti i panni di un avvocato e la notte ti trasformi in un paladino delle 6 corde. Come questi due aspetti della tua vita sono cresciuti insieme portandoti fino a dove sei arrivato ora?

Ciao Matteo. Innanzitutto grazie mille per lo spazio che concedi a me e alla mia musica.
Come dico sempre, sono prima un musicista e poi un avvocato, e non solo perché ho iniziato a suonare dal vivo molto prima di iscrivermi a giurisprudenza, ma anche perché – al di là della questione puramente cronologica – la musica abita nella sfera più intima della mia anima e, pur amando il mio lavoro, tra le due passioni non c’è storia. Posso immaginare di fare mille altri lavori, ma mai di vivere senza musica. Se non suono, ascolto musica, e se la musica non è fuori di me di sicuro suona dentro la mia testa. E se non ho a portata di mano una chitarra e non posso cantare, batto il tempo con un dito, con i piedi o anche solo con i denti! Forse più che una passione è una malattia, un disturbo della personalità…

E come questi due aspetti si conciliano nel tuo presente? Essere avvocato prevale sul tuo essere musicista o ritieni che questi due aspetti della tua vita siano ben bilanciati nel tuo quotidiano?

La vita prende pieghe strane. Una delle forme che l’amore per la musica ha assunto nella mia vita è stata la mia attività come speaker radiofonico da quando avevo 16 anni fino a quando non ho lasciato Messina per trasferirmi a Milano (e ne avevo 28). E di cosa si occupava il primo studio legale con cui ho collaborato appena arrivato qui a Milano? Di broadcasting radio-televisivo, editoria, diritto d’autore: era lo studio dell’Avv. Ugo Bagalà il quale aveva fatto la storia del diritto radiotelevisivo, costruendolo decenni prima prima della prima vera legge settore (la famigerata legge Mammì, del 1990) con le cause pilota e le sentenze dei pretori sulle radio libere a metà degli anni ’70. In quell’ambito (e poi nel settore adiacente delle telecomunicazioni) ho passato oltre 10 anni della mia vita professionale, quindi posso ben dire di aver avuto la fortuna di occuparmi per lavoro della mia passione per la musica.

Il tuo primo album “Postcards from nowhere” (PFN) lo definisci il tuo “The Best of…” in quanto raccoglie tutto il meglio che hai composto fino al 2013, quanto ti rappresentava 7 anni fa e quanto ti rappresenta ancora oggi? e’ ancora il “the best of Leandro Diana” oppure ritieni di esserti superato con il tuo ultimo Album?

Ho cominciato a scrivere canzoni al liceo e non ho mai smesso. Alcune canzoni si sono accumulate e non so più quante volte le ho suonate dal vivo o registrate in demo varie, ma senza mai riuscire a fissarle definitivamente. A un certo punto, dopo tanti anni (tipo… 20?) ho realizzato che non potevo continuare a suonare canzoni che avevo scritto a 16 anni, per quanto belle mi continuassero a sembrare. Avevo bisogno di scrivere cose nuove, che parlassero del mio presente. Per fare questo ho capito che dovevo svuotare i cassetti, e per liberarmi delle mie vecchie canzoni dovevo dare loro una forma definitiva e superarle. Così mi sono messo di impegno e con il contributo di alcuni dei migliori musicisti con cui abbia avuto la fortuna di incrociare gli strumenti, finalmente mi sono messo di buzzo buono per dare forma definitiva a quelle canzoni e guadagnarmi una nuova libertà artistica. Postcards era davvero il mio “Best of” in quel momento!

Continuo ad amare quelle canzoni, ma è inevitabile che quelle che ho scritto dopo rappresentino molto meglio il me stesso di oggi. Anche musicalmente, oltre che liricamente. Nel complesso, artisticamente, non so dirti se con le canzoni nuove ho superato qualitativamente quelle vecchie, sono tentato di rispondere di si, ma tutto sommato non spetta a me dirlo.

“Dirty Hands and Gravel Road” (DHAGR) segna un passo successivo nel tuo percorso di vita e artistico, cosa e’ cambiato per te da PFN?

Sono cambiate un sacco di cose. Sono andato a convivere con la mia ragazza in una città dall’altra parte del paese (volutamente, la grande città non solo geograficamente ma soprattutto culturalmente più distante dalla mia Messina) mi sono sposato, sono diventato padre, sono cresciuto come marito e come padre ancor più che come uomo, ho iniziato a lavorare e pur restando avvocato ho fatto un sacco di esperienze professionali profondamente diverse l’una dall’altra in un tempo tutto sommato abbastanza breve. Ho sperimentato la perdita del lavoro, l’angoscia di domandarsi “da che parte arriverà il prossimo dollaro” (citando il grandissimo Chris Knight), la malattia la paura e il rischio molto concreto di perdere le persone più importanti della mia vita. Tutto superato, per fortuna, ma si paga comunque un prezzo. E’ abbastanza ovvio che lo spirito dentro alle canzoni che scrivo oggi sia molto più disincantato.

Per entrambe i tuoi album ti sei occupato di gran parte degli aspetti della registrazione e della produzione, ascoltandoli si percepisce un gran bel lavoro, cura ed attenzione a tutti gli aspetti di questi ambiti, ritieni che anche in questo emerga il tuo vissuto musicale, negli arrangiamenti e nei suoni che hai voluto proporre nelle registrazioni?

Ti ringrazio molto. Il mondo del recording mi ha sempre affascinato e incuriosito, quindi è stato naturale negli anni leggere, studiare e sperimentare anche in quel campo, registrare dai miei primi demo ai miei dischi. Sinceramente il fai-da-te è stato determinato anche dal fatto che la musica resta per me un’attività collaterale ed economicamente tutt’altro che redditizia. Ma rientra nel mio carattere quello di incaponirmi ad affrontare da solo le sfide che mi si presentano davanti: lo faccio anche coi piccoli lavori di casa, dal cambiare una presa a riparare un rubinetto che perde. E questo, inspiegabilmente, nonostante sia palesemente negato e tutto sommato posso permettermi di chiamare l’idraulico! Non ci posso fare niente, son fatto così: prima devo provarci io, se non riesco chiamo un professionista.
Ma l’autoproduzione musicale nasce anche da un ulteriore fattore: fin da quando concepisco il primo nucleo di una canzone ho le idee molto chiare di come debba suonare il prodotto finito, spesso fin negli accenti della grancassa e nei pattern di hi-hat. Per le cover no, sono molto rilassato e democratico, ma quando si tratta della mia musica è molto faticoso suonare con me, me ne rendo conto. Anche per questo, finché riesco, faccio molto prima a suonare io anche strumenti che non sarebbero “i miei” come il basso, che ho suonato sia su “Accept and continue” che su “Dirty hands and gravel roads”.

Nel primo album avevi incluso canzoni cantate in italiano e canzoni in inglese e nel secondo solo canzoni in inglese, e’ una cosa voluta o il materiale che hai prodotto in questi sette anni era solo in questa lingua? come cambia il tuo songwriting in queste due lingue?

Il passaggio definitivo dal miscuglio italiano/inglese/siciliano (si, su Postcards c’è anche una canzone in siciliano!) all’inglese in via esclusiva è stata soprattutto una scelta netta: il mio background musicale negli anni si è orientato sempre più verso sonorità tradizionali americane, molto roots, mi sono avvicinato al soul prima, al country poi, ho suonato tanto southern rock, ho abbandonato il rock italiano… anzi è stato il rock italiano ad abbandonare me, dato che è scomparso, a parte pochi e rari dischi! Niente a che vedere con la scena degli anni ’90 (Rats, Movida, i primissimi Negrita, Ritmo Tribale, Afterhours, Brando, il primo Ligabue, i vecchi Litfiba, etc…).
Inoltre, la musica che scrivo e suono – che comunque si differenzia un bel po’ da quella scena rock italiano dei ’90 – è ben poco apprezzata in Italia e di fatto non la suona quasi nessuno da queste parti. Aggiungi che il poco pubblico italiano del genere è profondamente esterofilo, per cui la scelta dal mio punto di vista è stata abbastanza ovvia.
Ma non ti nascondo che anche il pensiero che la musica si avvicini, anche nella lingua, a quella degli artisti da cui traggo maggiormente ispirazione ha il suo bel fascino…


Appena uscito DGAGR io già ti chiedo se ne hai già un altro in cantiere, ci sono voluti 20 anni per fare il primo, 7 per il secondo, a quando il terzo?


Fosse per me registrerei un disco l’anno. La ventina scarsa di canzoni poi finite su “Accept and continue” e su “Dirty hands and gravel roads” le ho scritte nell’arco di pochi mesi tra il 2015 e il 2016, ma sono riuscito a registrarle sul serio solo quando ho smesso di restare incastrato in mille cambi di formazione (parliamo di circa tre batteristi e almeno cinque bassisti!) e ho richiamato Deneb (Bucella, il batterista) perché mi aiutasse chiudere anche questo progetto. Ho avuto la fortuna di suonare con tantissimi bravi musicisti, ma Deneb è un’altra cosa, è su un altro livello. Meriterebbe di stare nell’empireo dei batteristi “first call” di Nashville o Los Angeles. Deneb ha registrato le 14 canzoni di Postcards in un solo giorno, dalle 11 del mattino alle 11 di sera, virtualmente senza pause se non per una pizza a pranzo, con la qualità, la precisione, la costanza e l’anima che puoi sentire sul disco. Le aveva ascoltate per la prima volta circa due settimane prima, e nel frattempo avevamo fatto solo una chiacchierata un pomeriggio a casa mia (senza strumenti) e appena due prove in sala. I batteristi a cui lo racconto di solito rabbriviscono e dicono che non è umano. E la stessa cosa ha fatto su “Dirty hands and gravel roads”: la batteria è stata registrata ancora una volta in un unico giorno. Ed ha la stoffa del produttore: “sente” la musica come nessun altro e i suoi consigli sono sempre pochi, chiari ma fondamentali. Oltre a suonare la batteria è sempre stato un supporto fondamentale in tante scelte musicali, nei suoni, anche nella sistemazione delle strutture di molte canzoni di Postcards.
Giuseppe, d’altra parte, non è solo mio fratello, ma è un musicista di rara sensibilità che sia con il pianoforte che con l’hammond riesce sempre a catturare e amplificare le emozioni che stanno al cuore delle mie canzoni, spesso facendole letteralmente decollare. Basta ascoltare “In questa notte” su Postcards o “One more day alive” su DHAGR… ha fatto un lavoro incredibile. E stavolta è stato davvero bello ed emozionante poterlo registrare nel suo salotto mentre suonava il suo bellissimo pianoforte Yamaha.
Il terzo disco… ha almeno tre canzoni pronte, un paio di testi e un paio di musiche da sistemare. Credo che non potendo andare live a breve completarne la stesura sarà la mia priorità nei prossimi mesi. Al momento è un disco strano, molto più pacato e meno elettrico di DHAGR, e che risente moltissimo del suono e dell’esperienza live coi Delta Preachers. D’altra parte l’idea di registrare un disco interamente di blues mi gira in testa da un po’… chissà cosa verrà fuori, e come lo registrerò… Una cosa però è certa, al momento, i testi restano al centro della scena, come per “Accept and continue” e DHAGR.

La tua attività live si divide tra una band, i Delta Preachers e un duo i Rolling Forks, parlaci di queste due formazioni e di quello che proponi in questi due contesti.

Entrambi i gruppi nascono, indipendentemente, all’inizio del 2019 dalla mia esigenza di mettermi sul serio a suonare e cantare il Blues. Suono e canto, contemporaneamente, da sempre, quasi qualunque genere, ma ogni volta che provavo a farlo con il Blues i risultati erano tra il frustrante e l’imbarazzante… Finché si trattava di limitarmi a suonare la chitarra già dal 2010 avevo avuto la conferma di saperlo fare, suonando per due anni con Angelo Morabito & the Bluesmokers, nel bergamasco. Angelo, messinese come me, ma bergamasco d’adozione, è la storia del blues e del soul a Messina: quando ero ragazzino lui suonava nelle grandi occasioni con i migliori musicisti e insegnanti di Messina, essere il suo chitarrista è stato un grande onore. Ma anche una grande palestra: avevamo fatto un paio di mesi di prove in cui avevamo levigato ben bene il repertorio, ma fin dai primi pezzi del primo concerto… sbam! Tutto inutile: tempi diversi, attacchi diversi, tonalità diverse, assoli chiamati dove non pensavo neanche ci potessero stare, stacchi inventati sulla base del suo dialogo emotivo con il pubblico. E’ stato il momento in cui ho capito che quando suoni dal vivo con altri musicisti, con degli artisti, ascoltare è infinitamente più importante che ricordare informazioni che hai studiato in un contesto completamente diverso come può essere casa tua o la sala prove. Quella è la preparazione di una finzione, il concerto è la vita vera. È inutile preparare le risposte: la vita cambia di continuo le domande.
Scusa la digressione.
Conoscevo Andrea Palumbo (cantante e armonicista) via internet e a un certo punto, a inizio 2019, ho risposto a un annuncio in cui cercava un chitarrista per un progetto molto preciso: un duo con un repertorio che mischiasse il country blues del Mississippi all’elettricità di Chicago. L’intesa, musicale ma soprattutto personale, è stata subito perfetta. Sua è stata l’idea di iniziare a suonare in strada prima di proporci ai locali, ed è stato l’inizio di un’avventura che ha portato una serie enorme di esperienze, aneddoti, soddisfazioni e insegnamenti.
Nello stesso periodo, ero alla ricerca – tanto per cambiare – di un nuovo bassista e un nuovo batterista per il mio progetto personale e Dario (Girardo, il bassista) ha risposto al mio annuncio portando in dote anche Franco (Ponso) suo batterista di fiducia in diversi altri progetti (tra cui una tribute band di Bob Dylan che aveva fatto parlare di sé). Abbiamo provato le mie canzoni una sera in una saletta, ma il suono non era quello che avevo in mente. Così – giusto per finire le due ore prenotate in sala prove – abbiamo buttato lì un paio di blues che avevo preparato mesi addietro per un paio di progetti ovviamente abortiti: e lì è cominciato il divertimento e la storia dei Delta Preachers! Io mi sentivo ancora una frana, ma loro hanno creduto nelle mie capacità e abbiamo cominciato a suonare stabilmente insieme, preso una nostra sala prove in affitto per affiatarci e costruire con calma un repertorio. A un certo punto, sentendo l’esigenza di ampliare il suono del nostro trio, è stato abbastanza ovvio chiedere ad Andrea divenire a suonare anche nei Delta Preachers, che a quel punto sono decollati.

Nei mesi subito post primo Lockdown seguendoti su facebook non avevo potuto non notare che quasi immediatamente eri tornato on the road (letteralmente) con il busking e mi venne in mente di affrontare questo argomento con te sulle pagine di Guitarblog.it. Ritieni che il busking permetta ai musicisti di avere spazi di espressione in un momento in cui i luoghi chiusi non possono essere utilizzati e non si possono creare assembramenti? Parlaci della tua esperienza con il busking.

Suonare in strada è stata un’esperienza grandiosa e una palestra pazzesca. La cosa nasceva più che altro dalla voglia di mettersi alla prova davanti a un pubblico senza la pressione che si ha spesso in locali in cui il gestore si aspetta da te più non tanto che suoni bene e coinvolga i suoi clienti, ma che i clienti glieli porti proprio dal nulla, magari coi pullman… Per fortuna – onore al merito – il Comune di Milano si è dotato di un regolamento apposito e di una struttura informatica che ti consente di registrarti, prenotare slot orario e postazioni tra quelli predeterminati (le postazioni sono oltre duecento, in tutta la città!) e scaricare il permesso da mostrare ai vigili in caso di controllo. Così abbiamo iniziato a suonare tanto in strada, anche ogni settimana in certi periodi, scoprendo un sacco di cose su noi stessi e sul suonare con o senza un pubblico, davanti al deserto di una piazza arrostita dall’afa estiva, a sciami di turisti businessmen o semplici passanti frettolosi che sembrano non accorgersi neanche che sei lì a suonare, ma anche davanti a capannelli di curiosi e saltuari appassionati che passano di lì per caso, si fermano per tutto il concerto e poi ti chiedono dove e quando possono venirti a vedere la prossima volta! La strada è tendenzialmente meritocratica: se stai dicendo qualcosa trovi sempre qualcuno che ti ascolta. E i bambini sono il pubblico migliore e la migliore cartina di tornasole: se si mettono a ballare stai facendo un buon lavoro. E poi capita anche l’americano matto che ci chiede da dove veniamo, si stupisce che siamo terronazzi e non americani, e ci dice che mai avrebbe pensato di sentire musicisti non americani suonare così bene la più americana delle musiche americane. E’ stato carinissimo, e ha palesemente e abbondantemente esagerato, ma non ti nascondo che ha nutrito lo stesso la nostra autostima come in poche altre occasioni…
Oppure quella volta che dopo un paio di pezzi da ascoltatore un ragazzo ci fa “ho appena fatto un esame al conservatorio, ho qui con me il sax e il mio treno non parte che tra un paio d’ore: vi dispiace se mi unisco voi per qualche pezzo?” ed è venuta fuori una jam bellissima e una nuova amicizia. La strada è la vita, la vita è una strada.
L’estate scorsa, a dire il vero, abbiamo suonato per lo più coi Delta Preachers, e la risposta del pubblico è stata pazzesca: abbiamo suonato davanti a tanta gente quanta è ben difficile vederne di questi tempi nei locali in cui si suona musica dal vivo. Abbiamo raccolto generose tips e bei complimenti. Alcuni ci seguono sui social e sono diventati delle presenze fisse alle nostre esibizioni. Impagabile.
Nell’estate scorsa ho anche suonato spesso dal vivo ospite di alcuni miei nuovi amici, grandissimi artisti: Max Prandi (colonna portante della scena blues milanese, un gigante, che mi ha chiamato a unirmi a lui sul palco dello storico Leoncavallo), Luca Andrea Crippa (Ruben Minuto Band, No Rolling Back con la sezione ritmica dei Ritmo Tribale!!!) e lo stesso Ruben Minuto, che hanno apprezzato l’insinuarsi della mia slide nelle loro miscele di blues, soul, country, southern rock, alt. country… Con Luca ci siamo divertiti tanto da decidere di mettere su un duo tutto nostro, reinventandoci ironicamente “West End Dudes” (dal momento che abbiamo scoperto di abitare a pochi chilometri di distanza, entrambi nel “west end” di Milano). Purtroppo il nostro esordio “ufficiale” nella rassegna live “A taste of America” è saltato a causa della pandemia, ma è tutto solo rinviato…

Parlaci della tua strumentazione in duo e con la band.

Negli anni mi è passata tra le mani un sacco di strumentazione, perché mi piace cambiare e provare nuovi strumenti (so che pochi possono capirmi come te!) ma chi suona con me dice che il mio suono è sempre lo stesso… Per me il suono lo fa soprattutto l’amplificatore, e ho sempre prediletto le sonorità Marshall (nonostante l’unico ampli Marshall che abbia mai avuto l’ho tenuto davvero pochissimo e no ci ho fatto neanche un concerto). Essendo pigro la mia ricerca si è concentrata sul raggiungimento di un certo suono (specie da quando ho realizzato che il mio suono lo ottengo con quasi qualunque cosa abbia tra le mani) quanto verso la miniaturizzazione del mio rig. Da un paio d’anni ho trovato il mio Sacro Graal che si chiama BluGuitar Amp1: meravigliosa testata 100w concepita e realizzata dal chitarrista e amp designer tedesco Thomas Blug (la mente dietro ai migliori progetti Hughes and Kettner degli anni ’90), con 4 canali, riverbero, boost, loop effetti, simulatore di cabinet, power soak interno, interamente controllabile via midi… ed è grande quanto 4 o 5 Tubescreamer e pesa meno di un chilo e mezzo! Dei quattro canali uno è un clean tra Fender e Vox, uno (“Vintage”) è ispirato al Marshall JTM45 e uno (“Classic”) al JCM800 e derivati (il quarto, “Modern”, si avventura in territori Mesa, ma non è il mio genere, nonostante a gain bassi ci si tirino fuori lead stile Dumble molto carini). Di base il canale “Classic” con gain a metà è il mio suono, specie in ambito Rock (ma potrei suonarci qualunque cosa, giocando con il volume sulla chitarra), mentre il canale Vintage è perfetto per il soul e il blues più elettrico e solo di recente ho iniziato a usare il canale pulito (leggermente sporcato dal boost) suonando con i Delta Preachers. La verità è che posso regolarlo come capita, tira fuori sempre un gran suono! La testata Amp1 va in una piccola cassa 1×12” closed-back SoundSation (della serie Molotov) ma cui ho sostituito il cono originale con un Jensen Neo 12-100 al neodimio, che sopporta 100 W RMS (e picchi fino a 200 W) e che ha sempre suonato meravigliosamente con tutte le testate che ci ho buttato dentro negli ultimi 6 o 7 anni… Raramente, ormai, fisso l’Amp1 in una pedaliera autocostruita con dentro un mini wah Hotone Soul Press e un piccolo multieffetto Nux Cerberus che fa anche da controller midi per l’Amp1 e da lettore IR per andare in diretta live o in studio. La cassa pesa poco meno di 9 kg e la pedaliera (con l’Amp1 dentro) appena 3,9 kg: una pacchia!
Anche sul fronte chitarre ne ho cambiate tante e da poco ho radicalmente rinnovato l’intero parco: attualmente ho due solid body (una PRS SE Soapbar con pickup GFS e una Yamaha Pacifica 611 VFM ancora con i Seymour Duncan originali), una rara hollow body Peavey Rockingham B6 (con un sontuoso Seymour Duncan Jazz al manico, un bel ’59 vicino al ponte Bigsby originale) e uno strano ibrido Harley Benton (una solid body resofonica con un pickup piezo e magnetico miscelabili). Sul fronte acustico la chitarra principale è una stupenda Cort L300VF, orchestra model in massello con tavola in abete adirondack, amplificazione Fishman e un tamarrissimo battipenna leopardato! Ma uso ancora tanto la cara vecchia jumbo Cort SJ5 e ultimamente ho anche tirato fuori dalla naftalina la dreadnought Eko Spencer con cui ho praticamente imparato: sono bastate delle corde nuove (rigorosamente Elixir, come su qualsiasi altro mio strumento da oltre 20 anni a questa parte) e mi ha fatto rivivere delle bellissime vecchie emozioni…
Nei locali con Rolling Forks e Delta Preachers suono per lo più la Peavey nell’Amp1 dritto nella cassa, senza Cerberus, ma in strada sarebbe un po’ scomodo, quindi uso una delle solid body su un minuscolo modeler Zoom G1Four dentro alla mia spia Behringer B205D (minuscola ma potente) insieme al microfono, alimentata da un accumulatore da motocicletta e un inverter, per ridurre efficacemente i pesi. Il risultato è più elettrico e moderno rispetto al mio suono “standard” ma si tratta di un compromesso inevitabile.
Su disco l’Amp1 domina incontrastato, con ben poca effettistica di contorno, ma non è mia stato microfonato. Su “Dirty hands and gravel roads” dall’uscita cassa andavo in una DI per abbassare il livello e poi dritto nel multitraccia (uno Zoom L12), mi sono anche divertito a sperimentare buona parte delle sue features “nascoste” (ricevendo anche l’apprezzamento di Thomas Blug!) godendomi il lusso di far saturare il finale (lo si sente bene, secondo me, nel suono quasi fuzzoso di “Just be gone”, tra gli altri) in silent recording totale senza neanche dover usare un attenuatore esterno (e usando poco anche quello interno). La cassa è stata simulata tramite diverse IR miscelate traccia per traccia in fase di mix., in cui sono anche stati aggiunti pochi effetti d’ambiente. Su “Accept and continue” (che è stato registrato dopo) ho scelto un approccio più immediato, registrando il suono già finito: Amp1 con Cerberus in modalità 4 cavi dritto al multitraccia dalla seconda uscita del Cerberus quindi tramite la sola IR (diciamo “custom”, realizzata da me miscelandone tre diverse) caricabile sulla pedaliera (oggi in realtà un aggiornamento software consente di caricarne diverse, e associarle a preset diversi). Solo alcune parti con effetti particolari sono state registrate con un Boss Katana 50 o con la Zoom G1Four. Col senno di poi posso dire di preferire il secondo approccio, più immediato ma senza sacrificare un buon suono, a mio modo di vedere.

Il tuo album esce in un momento in cui è difficile pensare di portarlo in giro dal vivo, lo proporrai anche tra le strade di Milano?

Bella domanda! Data la situazione non ci ho neanche pensato, sinceramente. Dato il tempo trascorso tra la scrittura delle canzoni e il completamento del disco (decisamente troppo per la mia natura), credo che dopo la sua uscita mi dedicherò con grande piacere al completamento ed alla registrazione del prossimo disco… ma immagino anche che a un certo punto, non appena sarà possibile farlo, mi verrà voglia di far ascoltare queste canzoni dal vivo, cosa che quasi certamente finirò per fare.
Non so ancora se in strada… mi hai dato una bella idea! Non ho mai suonato in strada con Deneb: potremmo esibirci in duo tra set elettrici e set acustici (abbiamo fatto un concerto acustico insieme soli io e lui una volta: Deneb è formidabile anche seduto su un cajon con un sonaglino al piede)… D’altra parte sono anche curioso di sentire l’armonica di Andrea sulle mie canzoni rock… perché no? La strada ci consentirebbe di suonare in una serie di formazioni e configurazioni diverse e assolutamente inedite, regalando di volta in volta arrangiamenti sempre nuovi e diversi a queste canzoni. E invitare gli amici a unirsi a noi per qualche canzone sarebbe molto naturale.

Grazie Leandro per aver condiviso con noi questa tua esperienza musicale che sicuramente puo’ essere fonte di ispirazione per molti per credere nella propria musica cercando di trarre il massimo dalle proprie conoscenze e dalla propria strumentazione e cercando sempre piu’ di alzare l’asticella.